Bud Spencer, in arte Bambino.

L’ho detto e scritto tante volte, per certi aspetti sono stato un bambino fortunato. Nasco nel 1962, pochi giorni dopo che Papa Giovanni XXIII scomunichi Fidel Castro, e nello stesso anno in cui muore Marylin Monroe e nascono i Beatles.

Sono stato molto fortunato, dicevo. Le strade per la maggior parte erano ancora fatte di ghiaia, e grazie a loro oggi posso avere nostalgia dei graffi sulle ginocchia, ma anche dei pomodori che d’estate venivano messi a bollire in bidoni enormi, installati in un cortile al riparo di due palazzi.

Nel 1967, dunque, avevo appena cinque anni, e nel 1967 nasceva la più bella coppia che un bambino, da lì e per molti anni a venire, poteva avere la fortuna di conoscere: Bud Spencer e Terence Hill.

Il gigante buono che se lo facevi arrabbiare picchiava duro, e il biondo smilzo e furbo che a volte cercava di raggirare l’amico barbuto, ma che alla fine non lo tradiva mai.

Erano anni di cinema con le sedie di legno, che quando c’erano loro scricchiolavano dalle risate ed erano sempre pieni. Riempivano anche i cinema all’aperto estivi, quelli dei centri ricreativi, dove le famiglie la sera potevano ritrovarsi unite per farsi quattro risate sane e senza spendere una lira. 

Sono stato fortunato, perché sono cresciuto in anni semplici e genuini, che mi hanno permesso di sopportare meglio anche quello che per me tanto semplice non era.

Altrimenti ci arrabbiamo, era diventata la risposta obbligata alla domanda “Altrimenti?” E poteva finire a cazzotti o in un pugno di risate.

Mi hanno accompagnato fino alla prima adolescenza, ma come tutte le cose che mi hanno aiutato a crescere meglio, ogni volta che li incontro li rivedo sempre molto volentieri. 

Come due amici che ti ricordano che siamo invecchiati, ma lo fanno strappandoti l’ennesimo sorriso.

Ciao Bambino Bud, o ciao Carlo, se preferisci.

Testa o Bowie

Muore Bowie e ci sto male, l’onda emotiva mi riporta indietro, mi riaggancia a quello che le sue canzoni hanno significato per me, a quei momenti della mia vita che quelle note hanno sottolineato.

Si, ci sto male, ma poi mi consegno alla sua arte e vado avanti. Mi dico che in fondo c’era da aspettarselo, che si, è vero, se l’è portato via il cancro maledetto, ma parliamoci chiaro, Bowie poteva morire a venti, trenta, o quarant’anni. Ha vissuto la vita come la maggior parte di noi non avrebbe mai fatto, e questo respinge un po’ indietro il dolore, mi fa pensare che si, mi mancherà, ma in fondo, a modo suo, se l’è goduta, che a superare i sessanta forse gli è andata anche bene e che a me resteranno le sue canzoni, il ricordo del suo anticonformismo, la sua aria da Ziggy.

Muore Testa e ci sto male, l’onda emotiva non mi porta quasi da nessuna parte, lo conosco da troppo poco tempo, e si, è legato a Giorgia, me lo ha fatto conoscere lei, ma in fondo ogni cosa che ho fatto negli ultimi due anni viene dallo stesso meraviglioso posto.

E allora? Cos’è questa tristezza che mi attanaglia da tre giorni e non ne vuol sapere di andarsene?

Si, ci sto male, mi sto consegnando alla sua arte, ma non passa. Ripercorro con più attenzione la strada tracciata dalle sue canzoni, cerco l’origine delle sue storie, scorro con gli occhi le righe che parlano della fatica che ha fatto per arrivare da noi italiani come lui, ma questo male non si placa, anzi, più vado avanti e più si alimenta la mia tristezza, perché Gianmaria Testa potevi essere tu, perché la sua chitarra poteva essere la tua, perché è morto lui ma potevo essere io.

A questo punto non ricordo più nemmeno perché ho iniziato a scrivere. Credo di averlo fatto per dare un nome a questa tristezza che mi scappa dagli occhi senza riuscire ad andar via. E allora Musica, Gianmaria.

Sto imparando a parlare

Sto cercando di dirtelo, io sto imparando a parlare.

Ripenso a tutte le stagioni che sono passate, alle piogge che sono piovute, ai soli che non sono bruciati.

Ripenso a te, che hai fatto risalire tutte le foglie sugli alberi, che hai convinto le mie lacrime ad uscire, perché fuori faceva bello.

Ripenso a me bambino e a come ho imparato a parlare quella volta, alle sillabe conquistate per mettere insieme parole sghembe.

 

Sto cercando di dirglielo, io sto imparando a parlare.

Domani abbraccerò mio figlio. Lo farò con le mani in tasca ed un sorriso di approvazione. Sarà l’inizio di una lettera sgualcita da tenere conficcata nel cuore, promemoria d’amore di un padre ancora un po’ troppo figlio.

Sto cercando di dirmelo, io sto imparando a parlare.

E cerco di farlo tendendo l’orecchio verso ogni tipo di gioia e di dolore. A volte per distinguerli faccio sforzi disumani, ma poi mi avvicino e provo a parlare con te, provo a stupirti con i miei nuovi colpi di genio.

Stanotte, ad esempio, ti ho accarezzata ancora, e tu per fortuna hai continuato a sognare.

Per un attimo ho avuto paura, per un attimo ho temuto che quell’urlo potesse svegliarci.

 

A Voi, nonostante tutto.

Forse per fare pace con me stesso devo parlare a Voi, voi che avete reso la mia vita quel che è, che mi avete accompagnato attraversandomi, vivendomi, sopportandomi, facendomi gioire e sanguinare.

Se provo a pensare cosa scrivervi, mi rendo conto che in fondo quello che mi riesce meglio è dimenticare, smussare, adattare al perdono tutto quel che è stato.

A te mamma, a te babbo, voglio dire che l’amore resiste, che anche l’istinto filiale è potente, e che io, nonostante alcune ferite perennemente aperte, sono qui, orgoglioso di essere riuscito a perdonare quello che mi sembrava imperdonabile. 

A te, figlio mio, chiedo di non giudicare frettolosamente le conseguenze dell’amore immenso che da quando sei nato mi hai fatto provare, e grazie per avermi fatto comprendere meglio gli errori di mio padre e mia madre, e grazie per quello che, nonostante tutto, stai diventando.

Ai miei fratelli voglio dire che quella cosa che mi scorrono nel sangue dev’essere per forza vera.

Ai pochi amici veri che ho dico grazie per essersi lasciati scegliere, per avermi concesso i miei tempi, e per aver accettato i miei limiti.

A chi ho voluto bene, facendogli involontariamente del male, regalo una porzione di silenzio e una nuova carezza.

A te, Silvia, ringrazio per aver percorso con me tutta quella strada, per avermi regalato Andrea e per tutto quello che riesci ad essere nonostante la vita. 

E poi ci sei tu, Giorgia. A te ringrazio per avermi riconsegnato alla Vita che sognavo, per avermi dimostrato che non mi sbagliavo, che da qualche parte esistevi, che in due ci si può anche amare senza spargimenti di sangue. Potrei continuare a ringraziarti per mille altre cose, ma non lo farò. Però grazie per avermi portato qui, in questo posto dove tutto è possibile, dove mi fai sentire unico, dove scrivere ti amo o un articolo da blog dei pazzi come questo, è ancora possibile.

E adesso sono qui

Sono cresciuto tra case popolari e strade polverose, col soffio di mia madre ad asciugare ferite che ancora fanno male, le assenze di mio padre come cotone infido intrecciato a sangue rappreso.

Ho portato quelle ferite fin qui perché credevo servissero a mio figlio, perché speravo che gli errori dei padri non ricadessero anche sui nipoti, ma non ho considerato che a volte si ferisce anche per troppo amore.

E così gli ho costruito ferite tutte sue, accomodandomi in una vita che non era vita per proteggerlo, subendo umiliazioni che erano umiliazioni per convincerlo, lasciandomi sprofondare nella menzogna morale per non disturbarlo.

Ora che sto pagando per il coraggio che ho avuto dopo, sono sereno, in pace con tutti quelli che amo e che mi circondano del loro amore, perché la tormenta ce l’ho ancora dentro, ma ho imparato a viverla, ad accettarla, a sorriderle con i sorrisi che vedo sul viso di mio figlio, della mia donna, e delle persone da cui, nonostante tutto, riesco ancora a farmi voler bene.

Il passato è qui, con i suoi ricordi che sanguinano e sorridono, con le cose che ancora non ho imparato, con il futuro che ha illuminato. 

E sono qui anch’io, che adesso posso morire in pace ogni giorno.

Casa mia

Attraversavo gli Appenini in treno, e per me che ero lontano da casa e ci tornavo, era emozionante cercare di immaginare i sapori delle minestre e dei discorsi, quel rumore di sentimenti che intravedevo attraverso le tende delle finestre illuminate. Arezzo, Cortona, Bologna. Consumavo rotaie e anni, e in mezzo alle loro distanze disegnavo mille storie, invidiando quel calore crepuscolare che assegnavo ad ogni famiglia che dietro quelle finestre, e dentro al mio immaginario, stava per riunirsi per consumare un rito che io non ripetevo più da troppo tempo.

Sono passati trentatré anni ma loro sono sempre lì, a profumare tutti i miei ideali. Che belle quelle case che erano casa mia.

Padre mio

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Padre mio, ho scelto di scriverti.

Lo faccio per provare a fare pace con te e mettere da parte tutto quello che mi ha fatto crescere troppo in fretta.

Vorrei poter non parlare più di quello che ci è mancato, vorrei cancellare tutto quello che non è successo, vorrei essere solo un esempio delle colpe dei figli che ricadono sui padri.

Perché sai, padre mio, ora sono grande anch’io, e adesso basta, non voglio più giustificarmi, non voglio più sentirmi un figlio del tuo seme coltivato solo a sangue e ferite.

Padre mio, adesso sono padre anch’io, e anche se la maggior parte delle cose che faccio sono figlie degli esempi che non ho avuto, io per la prima volta ti penso in pace.

È stato facile? No, padre mio. Ho spalato così a fondo nel mio cuore fino a trovare il bene che non sei riuscito a darmi, l’ho preso e l’ho pulito bene e ho deciso di regalarlo a mio figlio, a tuo nipote, che così, pur non avendoti mai conosciuto, potrà provare ad immaginare che nonno saresti stato.

Già, padre mio, devi sapere che me lo sono chiesto miliardi di volte: chissà con lui come saresti stato? Chissà se avrebbe aiutato anche te? Chissà se avrebbe messo in pace anche la tua rabbia di vita?

Io credo di si, e sono certo che con quel nipote avresti fatto rinascere anche noi, figli in attesa da troppo tempo.

 Quindi adesso chiudo gli occhi e ti vedo lì, che hai appena smesso di aver ragione con mamma, che puoi finalmente tornare ad aspirare il fumo dalla tua sigaretta e mi guardi. 

Sembri ancora troppo distante, padre mio, ma io oggi ho deciso di non aspettare più, di venirti incontro, allungarti la mia mano.

Aiutami anche tu,  proteggi il mio coraggio, che io alzo lo sguardo, e scavandomi dentro mi chiedo perdono.

Il dolore degli altri 

In questi giorni un po’ così, passati vomitando sui medici che mettono alla berlina i loro pazienti e sui giustizieri vigliacchi che amano deridere gente malata di cancro, quelli che mi hanno fatto più riflettere sono stati loro, i soldati silenziosi, quelli che non prendendo posizione in nome di una libertà di pensiero mal utilizzata, hanno sostenuto silenziosamente la peggiore viltà che io abbia mai letto su questo social. 

Per giustificarsi si sono giocati la carta del “anch’io ho conosciuto il dolore della malattia”, “anche mio padre è morto di cancro”,  “il fatto che non dica nulla non significa che questo mi vada bene”, “ha sbagliato chi ha sfogato il proprio dolore qui dando ai vigliacchi la possibilità di usarlo”.

Bene. Io di morti di cancro in casa ne ho avuti diversi. Ho persino avuto la fortuna di veder spegnersi persone a me care per una malattia talmente rara che non valeva la pena cercare una cura. E poi i suicidi. Sapete cosa fanno i suicidi a chi resta? Ancora bene. In qualche modo ho messo un riassunto del mio dolore qua con la consapevolezza che se qualche meschino lo userà per ferirmi la colpa sarà solo sua.

Ho parlato del dolore che ho provato, ma so di poterlo riconoscere ovunque in quanto dolore, non in quanto mio. 

Perché dovrebbe essere un cazzotto alla pancia, perché non dovrebbe lasciarci indifferenti mai, perché non dovremmo trovargli mai una giustificazione. 

Perché dovrebbe far male anche il dolore degli altri.

Sarà per questo

Non è facile dover crescere. E pensare che da bambino lo desideri, invidi i più grandi, quelli che ai nostri occhi hanno il privilegio di poter uscire dal perimetro delle restrizioni genitoriali, quelli che in genere ci considerano poco, quelli che gli adulti chiamano ragazzi.

Da ragazzo stai da Dio, ma ti incitano a crescere, a studiare forte per poter sperare in un futuro migliore. E allora forza, che bisogna maturare, scegliere cosa fare, sgomitare per diventare ciò che in quel momento c’interessa meno: diventare adulti. 

E non è stato facile, un po’ per gli esempi avuti e molto perché nel frattempo ero già, giocoforza, diventato: un adulto. 

Mi hanno aiutato i dischi, mi hanno salvato i libri.

Era lì che scappavo quando potevo, era dentro quel mondo che rubavo la fantasia e gli ideali per puntellare il mio. E se sono stato migliore di quel che ero, è stato per quello.

Da adulto però devi crescere ancora, devi diventare grande, devi imparare a convivere con l’amore che vorresti provare, con i sentimenti che dovresti gestire, con la responsabilità di crescere ancora per crescere bene un figlio.

Non ho paura d’invecchiare. Ho paura di non essere riuscito a fare tutto bene, di non essere riuscito a dare tutto quello che potevo.

Non ho paura di morire. Ho paura di non riuscire a fare tutto bene, di non riuscire a dare tutto quello che vorrei.

Si, lo so, forse dovrei crescere, riuscire a prendermi meno sul serio, sorridere di più e meglio.

Ci proverò. E mi aiuteranno i dischi, mi salveranno i libri. 

È sempre lì che scappo quando posso, ed è sempre lì dentro che metto le mani quando scivolo via da me e dagli occhi che amo.

E se sarò migliore di quello che sono, sarà per questo.

  

Oppure di te

Forse ci innamoriamo semplicemente di chi permette alla nostra sensibilità di tornare a sorridere, oppure di chi non fa cadere le nostre lacrime raccogliendole in una carezza. Oppure di chi ci protegge affidandoci tutto senza paura.

Oppure di te, che sei anche tutto il resto. 

                          AUTUNNO

D’autunno, nel plumbeo ciel si desta la luna, funesta e scura, a rimembrar paura ed a scrutar dall’alto la dolcissima quiete di campagna mentre ascolta la lagna d’un bimbo in un’umile casa.

Giorgia, 9 anni.